Eccomi
qui, a 2 giorni dalla partenza. Quante cose nel cuore. Quest’ultimo mese ho
girato un po’, come se non volessi perdermi nulla di questa terra, nessun
incontro, nessuna storia di vita. Cagnosha, periferia della capitale. Un altro
mondo rispetto alle distese di campi di Mutoyi e dintorni. Tante case, piccole,
tutte attaccate. Qualche strada asfaltata e tante stradine tutte rotte piene di
sassi, sporcizia, mucche capre e venditori ambulanti. Si, qui non c’è terra da
zappare per poter portare a casa qualcosa da mettere sotto i denti, bisogna
inventarsi altri lavoretti per non morire di fame e di noia. La maggior parte
sono piccoli commercianti di indumenti, di cibo o di qualsiasi altra cosa che
comprano da qualche parte per rivenderla da un’altra in mezzo alla strada.
Qualcuno guida le bici-taxi e i più fortunati le moto o i pulmini che
trasportano solo i pochi che se lo possono permettere. Se due persone stanno
una in braccio all’altra pagano per uno; le galline salgono gratis. Chiedevo ad
una ragazza di 15 anni cosa avrebbe voluto fare nella vita. Mi ha detto il
medico, ma sa di non poterlo mai diventare perché la sua famiglia non ha
abbastanza soldi per pagare le scuole a tutti i figli. Mi ha detto anche che le
piacerebbe molto viaggiare, vedere altri paesi, ma sa anche che non uscirà mai
dal Burundi. A Cagnosha ho respirato un’aria densa di paura e tensione. Non si
può parlare troppo ad alta voce. O meglio, non si può parlare troppo. Con le
sorelle abbiamo fatto visita a tanti poveri che non avevano nulla da offrirci
se non le loro storie e le loro sofferenze. Ma soprattutto tanti sorrisi e
tanta gioia, come sempre. Siamo andate a visitare anche qualche ricco che
invece si preoccupava di non farci mancare da mangiare o da bere, e alla fine
si dimenticava di stare con gli ospiti, in preda ai preparativi. L’ingiustizia
si tocca con mano: Mega ville da una parte, più belle delle nostre, e
dall’altra parte casette di fango. Qualcuna di queste aveva una grande X bianca
sopra. Ho chiesto perché; mi è stato detto che qualcuno ha deciso che lì quella
casa non ci deve più stare, e sarebbe stata distrutta dopo qualche giorno.
Nonostante questo clima difficile la gente non smette di cantare danzare e
ringraziare il Signore per quel poco che ha. Ho chiesto alle sorelle di lì come
facessero ad aiutare uno sì e l’altro no, con che criterio vista la grande
povertà così diffusa. Mi è stato risposto che quello che fa ciascuno di noi è
solo una piccola goccia nell’oceano, ma se quella goccia non ci fosse,
nell’oceano mancherebbe, come disse Madre Teresa. Ma andiamo a Kigobe, più
vicino al centro della capitale. Sempre tanti militari armati per le strade e
tante persone che parlano sottovoce. C’è un angolo di meno poveri, una grande
cooperativa che grazie allo sforzo e alle notti insonni delle sorelle sfama 200
famiglie. E che bravi i panettieri, i pasticceri, gli informatici e tutti
quelli che ci lavorano. C’è un clima molto famigliare, anzi per qualcuno è
proprio casa. Qui ho ritrovato volti amici, balsamo per il cuore. E infine
N’Kuba. Avete già sentito parlare più volte di questa collina, quella che
accoglie centinaia di persone tra cui orfani di ogni età, ragazzi che hanno
bisogno di cure, vecchiette sole o malate. E’ da tanto che dico di voler vivere
qualche giorno lì ma ci sono arrivata solo alla fine del mio viaggio. Forse
perché vivere completamente immersa nei poveri fa un po’ paura e inconsciamente
li teniamo sempre e comunque ad una certa distanza di sicurezza. Forse perché
abbiamo sempre bisogno di un angolo tutto nostro dove poterci rifugiare o dove
poter chiudere gli occhi e non vedere chi ci sta di fronte. Forse ho tardato
non tanto perché dovevo lavarmi con mezzo secchio d’acqua fredda ogni giorno o
perché bisognava cucinare con la carbonella sotto un albero, ma perché stare di
fronte ai poveri fa tirare fuori anche le tue di povertà, le tue ferite. Penso
a Bera, di 2 anni, che non ha più i genitori, che l’altro giorno ha preso la
mia mano e l’ha messa sul suo volto per farsi dare una carezza. Forse avrebbe
voluto quella della sua mamma. Penso a Charlotte che è impazzita dopo aver
visto uccidere suo padre e i suoi fratelli davanti ai suoi occhi. Penso a
Generosa, che non ha più un braccio dalla guerra del 93’; a Eveline che cammina
con le stampelle da quando è caduta: Scappava perché 2 uomini le volevano fare
del male. O a Chantal, i suoi genitori l’hanno abbandonata in ospedale alla
nascita. Si potrebbe andare avanti per giorni. Così in questo tempo mi sono sentita
libera di aprire le mie ferite. Mi sono sentita libera di piangere perché mi
manca tanto mio papà, o di dirmi quanto ho sofferto quando mi sono sentita sola
e rifiutata. Ho pianto tanto in questi mesi. Lo ammetto, più per le mie croci
che per quelle di chi ho incontrato. Guardando il crocifisso spesso ho chiesto
perché tutta questa ingiustizia, tutta questa sofferenza. Ho trovato la
risposta proprio lì, in quell’uomo appeso ingiustamente ad una croce, che ha
provato dolore, solitudine, paura e angoscia. E in quella madre che ha visto
morire sotto i suoi occhi il suo unico figlio di poco più di 30 anni,
impotente. Ma da lì, da quel fianco squarciato è nata una sorgente di vita.
Quelle ferite sono state feconde. E’ quello che ci viene chiesto anche a noi. E
qui, forse involontariamente, forse senza saperlo o volerlo, queste persone
nonostante tutto sono sempre nella gioia. Sempre accoglienti e generose. Chi ha
le mani buone offre quelle per chi non le ha. Chi ha le gambe le sfrutta per
correre da chi ha bisogno. Le ragazze aiutano i piccoli e i piccoli fanno
ridere le vecchiette. Ognuno a N’Kuba mette quello che ha, poco o tanto che
sia, e alla fine viene fuori un corpo meraviglioso. Deve essere orgoglioso Dio
Padre di questo angolo di paradiso. Da tanta sofferenza nasce tanto amore, ed è
contagioso. Ringrazio il Signore per questo tempo di deserto, di gioie, di
relazioni non sempre facili, di commozione, di compassione. Più di tutto porto
a casa la loro gratitudine per questa vita che esprimono con tutto il loro
corpo, la loro voce, le loro mani; e la loro libertà grande, forse dovuta al
fatto che hanno ben poco da perdere, nemmeno una reputazione. O forse perché
proprio a loro, ai piccoli, ai semplici, viene rivelato il segreto di questa
vita e dell’altra.
Eli
Grazie Eli per la tua testimonianza. E' difficile commentare le tue parole anche perchè le lacrime mi confondono gli occhi...grazie per aver messo a nudo le tue fragilità che poi sono le stesse che tutti noi portiamo nel cuore.
RispondiEliminaGrazie per il coraggio che ci dai, perchè senza coraggio non possiamo riconoscere le nostre paure.
Grazie per il messaggio di speranza che ci mette di fronte a questo capolavoro di Dio che è la vita stessa, qualunque essa sia. Buon rientro a casa.