Mi ritrovo a scrivere alcune righe dopo una settimana iniziata in modo apparentemente calmo, come fosse la quiete prima della tempesta. Non vi spaventate, parlo di tempesta di emozioni che riempiono i nostri giorni e i nostri cuori, fin dal primo giorno che i nostri piedi hanno toccato la terra africana.

Lunedì primo luglio qui in Burundi è festa: si ricorda il giorno dell’indipendenza del paese, e di lavorare non se ne parla proprio; così ne abbiamo approfittato per far un po’ di ordine in casa, parlare e insieme organizzare alcuni lavori a tavolino e, inoltre, per fare una passeggiata alla scoperta di nuovi angolini tra i diversi sentierini di terra rossa che tra di loro di si intrecciano.

L’apparente calma con la quale abbiamo iniziato la settimana è stata interrotta dalla sveglia del martedì delle ore 6:30. Chi ci aspettava era una donna con la D maiuscola, Viola, che abita sulla collina di Nkuba non tanto lontano dall’orfanotrofio. Appena ci ha visti ci ha salutati con un caloroso “bwakeye”, un sorriso radioso dal quale è difficile percepire il peso di una vita di lavoro nei campi e di sofferenze. Viola ha sei figli, e la più giovane ha sui quindici anni; il marito non è più presente con la testa dopo una grave crisi avuta dopo l’ultimo figlio e la sua vita dipende dai farmaci. E non solo. Viola si prende cura giorno dopo giorno di questo uomo, padre dei suoi figli, bisognoso di attenzioni come se fosse un figlio ed è proprio per suo marito che noi martedì eravamo con lei a fare i mattoni. È per lui che Viola vuole costruire una casetta affianco a quella già esistente dove vivono, o meglio, sopravvivono: tre dei suoi figli dormono per terra insieme alle bestie, caprette e porcellini d’india e con essi le loro pulci e il loro letame, gli altri tre figli sono stipati insieme alla mamma nella zona cucina, mentre il marito è isolato in una sua stanzetta.
Eravamo in pochi ad aiutare Viola, e con noi un solo uomo c’era; infatti, le sorelle ci hanno spiegato che nessuno dei suoi vicini accettava l’idea di aiutarla per costruire un’altra casa: un tetto sotto cui dormire Viola lo ha già, così hanno detto. Ma se solo essi entrassero in casa e guardassero, e se solo riuscissero a percepire le difficoltà di una vita condivisa in casa con un uomo “matto”, forse saremmo stati in tanti a sporcarci le mani. Alla fine, siamo risultati pochi ma buoni: 335 mattoni come frutto di una mattinata, vestiti sporchi e tanta gioia per aver condiviso la fatica insieme.

Una famiglia come quella di Viola non ha neppure un pezzo di terreno da coltivare accanto alla casa, e non ha molto cibo. Ma Viola ogni giorno, come fosse un rituale, lava i bambini, li veste con i vestiti più belli che hanno e li manda un po’ frettolosamente all’orfanotrofio, affinché possano ricevere un po’ di cibo. Intanto, la mamma di questi meravigliosi sei figli cerca lavoro nei campi dell’altra gente, va dove hanno bisogno e a fine giornata è così che porta a casa qualcosa per sfamare tutta la famiglia.

Il lavoro in sé dei mattoni, il “gufyatura”, oramai lo abbiamo imparato; si crea una buca nella terra con delle zappe, poi l’acqua che si raccoglie alla fonte (che spesso si trova lontana dalla casa) viene versata all’interno della buca ed è così facendo che si crea l’”ubudongo”, il fango. Quest’ultimo, ancora fresco e molto umido, viene poi preso con le mani nude e trasportato attraverso una catena umana, o con dei semplici sacchi di yuta, dalla buca all’interno di sagome in legno cave che formeranno poi il mattone. Tolta la forma del mattone nel giro di due minuti, l’ubudongo rimane intatto ed è lasciato seccare sotto i raggi del sole caldo, un sole che questa settimana si è fatto ben sentire. La stagione della secca è ufficialmente iniziata!

Mi soffermo ancora sul lavoro dei mattoni. Venerdì mattina, la sveglia che aveva interrotto la “quiete” del lunedì è tornata a suonare: a Kivuvu, le sorelline della succursale ci aspettavano nella loro piccola oasi di pace lontano dal “traffico” di Mutoyi. Questa volta, ci spiegano le sorelline, avremmo aiutato una donna anziana pigmea che, abbandonata e allontanata volutamente dal proprio gruppo, ha chiesto aiuto alla parrocchia di Kivuvu. Ci siamo spostati a piedi dalla succursale con i nostri attrezzi da lavoro sulle spalle per circa 4 chilometri arrivando alla capanna di paglia della umutamakazi (“vecchiettina”, in lingua Kirundi) pigmea che, senza l’aiuto delle persone più vicine a lei, ci ha accolti con una forte stretta di mano e un sorriso che ha lasciato intravedere i segni evidenti sul suo volto, segni dello scorrere degli anni e di una vita così essenziale.
Eravamo di fronte a lei, noi ragazzi con qualche acciacco dai giorni precedenti, tra chi aveva raccolto per tutta la mattina le ibijumbo in umwonga e chi invece aveva percorso chilometri e chilometri alla ricerca di fonti d’acqua e tank per la mappatura degli acquedotti. C’eravamo noi e anche tanti altri giovani della parrocchia, tutti con lo stesso desiderio di fare qualcosa di bello insieme. Il lavoro non è risultato semplice, né tanto meno veloce, nonostante fossimo in un numero considerevole di persone. A fine mattinata avevamo realizzato 315 grossi mattoni.

La fonte dell’acqua, utile per creare il fango dei mattoni, non era una fontanella, bensì il fosso usato per irrigare la terra nei campi dell’umwonga, il fondo valle, dove abbiamo dovuto raccogliere l’acqua con le nostre tanichette dell’acqua dalla capienza di 5 litri ciascuna, due per ogni braccio per un totale di 10 litri alla volta. Su e giù per tante, tante volte (lo ammetto, i ragazzi portavano qualche litro in più rispetto ai dieci nostri!). Insieme a noi ragazzi e ai giovani della parrocchia pian piano si sono aggiunti anche tanti bambini che ci avevano visti arrivare e incuriositi inizialmente ci guardavano con occhi scrutatori. Bambini di sei anni che, vedendoci lavorare, non hanno esitato a prendere anche loro una tanichetta dell’acqua da 5 litri, e anche loro hanno iniziato a fare su e giù per la collina, tra il fondo valle e la capanna della vecchietta. Ogni bambino ne portava una, con braccia e gambe così esili, ma quasi correvano, tanto da far sembrare semplice la risalita con le taniche piene; i bimbi ci affiancavano, i loro passi li sentivo dietro alle mie spalle così come il loro fiato. Erano contenti e, nonostante la fatica anche loro erano lì per aiutare, per portare la tanica piena d’acqua, spostare l’ubudongo pronto e aiutare a fare i mattoni che, una volta seccati e una volta assemblati uno ad uno, insieme formeranno la nuova casa della anziana pigmea.

Mi sorprende la forza di questi bambini, piccoli corpicini esili che, tornati a casa, forse non avranno trovato una mamma ad aspettarli e forse non avranno potuto riempire le loro pance gonfie.

Altri occhi, altre manine e altre braccia sono quelle che ho visto in controluce sbucare dal muro della chiesetta di Mugero, dal quale penetrava una forte luce; per la precisione, un buco voluto di proposito, la cui forma è quella del crocifisso, e la cui apertura dava proprio sul paesaggio retrostante: il verde dell’erba fitta fitta in contrasto con il bianco delle roccette, la cui disposizione mi ha ricordato molto una cresta come quelle che vediamo sulle nostre montagne. Prima uno, poi due, poi tre e… infine non contavo più il numero di quegli occhietti che da quel crocifisso aperto sbucavano, spiando noi ragazzi.
Insieme a sorella Domi, avevamo fatto visita a quella chiesetta che si trova in alto su di una collina, tra le altre verdi colline di Bikinga. Infatti, sabato mattina siamo partiti alla volta della succursale di Bikinga dove da sempre ci abita sorella Lidia. La sua casetta è molto umile, il legno domina al suo interno. È una casetta costruita tutta con le sue mani, e tutto è fatto a sua misura con l’essenziale per viverci, proprio come i bivacchi di montagna.

È a Mugero, davanti al crocifisso “aperto”, come mi piace ricordare, che ho ripensato ai piccoli bimbi del venerdì, e l’immagine di Gesù che abbracciava quei bambini mi ha rallegrata, mi ha sollevata al pensiero che anche se non avranno trovato la loro mamma a casa ad accoglierli avranno comunque ricevuto l’abbraccio di Dio, così mi piace pensare. L’immagine di Lui che tutto vede e tutto abbraccia, un crocifisso in cui si rispecchiano tutti quei bimbi curiosi e bisognosi d’amore. Un crocifisso che abbraccia il mondo e se ne prende cura. 

- Cristina



Commenti

  1. con le vostre lettere ci fate emozionare perché ci fate ricordare la nostra gioventù. grazie

    RispondiElimina
  2. grazie ragazzi per le vostre testimonianze, con gesti umili e concreti si può trasmettere tanto amore. Tanta consolazione viene dalla Fede, "il Crocifisso che abbraccia tutti..." ha bisogno delle vostre mani, delle nostre mani. Non fermatevi mai.

    RispondiElimina

Posta un commento