È tempo di raccolti a Mutoyi e noi non
potremmo essere più contenti di poter finalmente lavorare gomito a gomito con gli
abarundi e faticare insieme a loro. Questa
settimana, ci informa mama Fiorenza, è il turno degli ibiharage, i fagioli. I primi tre giorni della settimana, ogni
mattina, ci presentiamo a N’kuba, armati di tanta energia, voglia di lavorare e
pazienza. Come prima cosa, però, appena arrivati vogliamo salutare i bambini,
guardare nei loro grandi occhi e stringere quelle morbide e minuscole manine. Alcuni
ci saltano in braccio, altri ci rincorrono, i più timidi accennano solo un
quasi appena udibile “jambu”. Bastano
una manciata di minuti e qualche immenso sorriso per realizzare quanto poco ci
voglia per riuscire a sentire il cuore davvero pieno. Le donne e le ragazze,
però, ci stanno già aspettando nei campi e a noi non resta che raggiungerle. Abbandoniamo,
seppur a malincuore, i bambini e ci addentriamo nella fitta giungla degli ibiharage. Le piante di fagioli si
rivelano particolarmente intricate, si sviluppano per il lungo e per il largo,
si arrotolano saldamente attorno ai bastoni piantati nel terreno, si
aggrovigliano tra di loro creando ragnatele perfette di rami, foglie e baccelli;
lasciando in questo modo poche fessure, a volte impenetrabili, nelle quali
poter passare, la maggior parte delle volte, graffiandosi le braccia. Il compito
sembra facile: strappare da ogni pianta tutti i baccelli, uno per uno, e
riempire i numerosi cesti sparpagliati qua e là. Inutile dire che la difficoltà
cresce in modo esponenziale all’aumentare: dell’altezza della pianta, del
numero di grovigli da essa creati e dalla vicinanza con gli altri lavoratori,
che risulta essere quasi sempre intorno ai 5-10 centimetri. Le mattinate
passano senza farsi quasi sentire grazie ai canti in kirundi e in italiano, ai mille starnuti accompagnati da
altrettanti “kira!”, salute, e alle
risate contagiose delle ragazze di N’kuba. Tra le lavoratrici al nostro fianco
c’è anche Esperance, una maestra piena di energia e voglia di fare qualsiasi
cosa, nonostante riesca a camminare solo con l’aiuto delle stampelle. Mentre riempiamo
i cesti, Esperance, che mastica un po’ di italiano, parla con noi e ci racconta
le storie di alcuni bambini. Io la ascolto da lontano. Non riesco, e da un lato
forse non voglio, sostenere il suo sguardo quando parla della piccola Odasìa e
ci racconta di come un attacco epilettico non preso in tempo le ha raggiunto il
cervello e adesso la sua famiglia non è in grado di darle le giuste cure e
attenzioni. Ascolto le parole della maestra senza togliere lo sguardo dalla
pianta di fagioli e dai baccelli che sto strappando. Odasìa ha 9 anni ma non lo
diresti mai, ha le braccia e le gambe esili ma una forza incredibile. Ha gli
occhi grandi ed espressivi, il sorriso perennemente stampato sul volto e una
risata contagiosa. Canta mentre raccoglie i fagioli, a volte balla anche, ogni
tanto la guardo, lei mi vede e scoppia a ridere, nasconde il volto tra le mani
e abbassa un po’ lo sguardo, poi alza di nuovo la testa e mi manda un bacio. Esperance
si china e le sussurra qualcosa all’orecchio, la bimba ride di nuovo e le
risponde. La maestra mi guarda e mi dice:“Le ho chiesto se sei sua amica e mi
ha risposto di no, ha detto che sei sua sorella”. Odasìa ha 9 anni ma ha un
cuore immenso. Perché se quell’attacco epilettico le ha raggiunto il cervello,
sicuramente il suo cuoricino non verrà mai contaminato da niente. Giovedì è
giorno di festa e mama Fiore ci invita caldamente a “non dare il cattivo
esempio lavorando”, così abbiamo l’occasione di risposarci in vista della lunga
giornata di venerdì che ci attende. La sveglia suona puntuale alle 5:10 e alle
6 siamo già pronti in umwonga, il
fondo valle, affiancati dai soliti e instancabili barundi. Ci sono soprattutto donne, alcune con i bambini sulla
schiena, e le solite ragazze di N’kuba che, nonostante le stampelle, si
rivelano più energiche e veloci di noi nel lavorare. Stavolta le piante sono
più basse, dobbiamo strapparle rimanendo chinati con la schiena e creando
mucchi altissimi di piantine in mezzo al campo. Il lavoro non è particolarmente
faticoso, ma i campi sono immensi e di alcuni non riusciamo nemmeno a vedere la
fine, complice anche la nebbia mattutina che ci ha accolti in umwonga. Strappiamo le piante cercando
di sostenere il ritmo dei barundi,
cosa quasi impossibile, e così le ore passano leggere e prima di mezzogiorno finiamo
il lavoro. Ci sediamo tutti insieme, inevitabilmente un po’ stanchi, indubbiamente
affamati ma soprattutto pienamente soddisfatti per aver ultimato il tutto in
meno di 6 ore. Le donne e le ragazze, ancora una volta, ci stupiscono: trovano
la forza di ballare e cantare e in pochi minuti si crea un grande cerchio con
tutti quanti. Ci sentiamo pienamente parte della comunità. Abbiamo finalmente faticato
insieme a loro, piegato la schiena per raccogliere le piantine, sentito il
caldo del sole picchiarci sulla testa. Abbiamo provato la soddisfazione nel
vedere un campo finito, nel tenerci per mano ripercorrendolo insieme per
assicurarci che non andasse perduto neanche un fagiolo, neanche un minuto di
lavoro. Neanche un minuto passato insieme a donne forti, che conoscono la
fatica ma non ne hanno paura, che portano bambini sulla schiena e pesi
incredibili sulla testa, che si occupano della famiglia, del marito e dei figli,
dei campi e del cibo. Donne che quando ti stringono la mano dicendo “amahoro”, pace, lo fanno con una presa
salda, con le mani forti. Le stesse mani che sono in grado di mandare avanti
una famiglia.
Rebecca
nta kundi, niko bimeze!
RispondiEliminaGrazie Rebecca per il tuo racconto. Per un attimo ho pensato di trovarmi con te, Esperance, Odasia e tutte le altre donne nel campo di fagioli.
RispondiEliminaLe tue parole arrivano a noi e ci portano le tue belle e profonde sensazioni.
Buon lavoro e buon proseguimento!