Abbandoniamo per un istante, o meglio, per una settimana Mutoyi e con essa la sua gente e le loro storie, le sue strade rosse sterrate e l’aria fresca e pulita che si respira in collina; accantoniamo, solo per pochi giorni, le nostre attività quotidiane. In particolare, i ragazzi la ristrutturazione della staccionata all’interno dell’ospedale di Mutoyi, e noi ragazze le attività con i bambini dell’orfanotrofio di N’kuba. Ad attenderci sarà una settimana particolare.
Lunedì mattina il viaggio che ci aspettava era bello lungo: zaini pronti in direzione Bujumbura, la capitale del Burundi. In molti magari si chiederanno come mai sei ragazzi in qualità di volontari a Mutoyi si sono spostati per fare un piccolo soggiorno in capitale: come mai abbandonare le verdi colline, il fresco e la tranquillità della vita di Mutoyi scandita dalle ore di luce del sole? Sapevamo che a Buja, precisamente nel quartiere di Kigobe, ad attenderci ci sarebbero state sorella Mariuccia e sorella Giulia; tutto il resto è stata una sorpresa di cui cercherò di parlarvi attraverso qualche riga.

Il viaggio da Mutoyi a Buja sul nostro pullmino è stata un’emozione unica: anche se ti senti stanco e gli occhi si chiudono perché hai passato una notte insonne ci sarà sempre qualcosa che ti manterrà sveglio, e non parlo solo delle tante buche che si incontrano lungo il tragitto e che ti sballottano a destra e sinistra; bensì, ovunque ci sia una strada, con essa non mancherà mai la gente, una moltitudine di persone di tutte le età: un bimbo così come tantissimi altri che, con la sua tanichetta dell’acqua ogni giorno farà chilometri per portare a casa un po’ di acqua, donne e con loro minuscoli corpicini che sbucano sulla schiena legati stretti alla loro mamma con delle stoffe coloratissime, donne che allo stesso tempo sorreggono sulle loro teste di tutto e di più, dagli inkono (vasi di terracotta) ai fusti di alberi tagliati dal diametro impressionante… la loro forza mi lascia senza parole, così come anche il loro equilibrio! Non ho mai visto cadere nulla dalla loro testa.
Attraversando il paese da un luogo all’altro cambia il paesaggio, cambia il manto stradale, cambia la gente. È impressionante salutare Mutoyi, ed uso il verbo salutare perché non c’è altro modo per descrivere la nostra prima parte del viaggio fino all’imbocco dell’”autostrada” (l’inizio della strada asfaltata): guardi a destra, guardi a sinistra e non c’è mai una volta che ai bordi della strada non ci sia un bimbo o una donna… non riesci a non salutare, loro ti guardano con quegli occhioni grandi di curiosità, a volte urlano abazungu (si è sentito persino un “Amahoro patiri” – Buongiorno padre! - riferito chiaramente a chi stava alla guida, il nostro Arudo), altre volte corrono così veloci ai lati del pullmino per tenere il nostro “passo”, per poi vederli dallo specchietto rimanere indietro e allontanarsi con il sorriso sulle labbra.
La moltitudine di “jambo” e “amahoro” è andata via via scemando man mano che ci avvicinavamo alle zone più trafficate dai mezzi di traporto fino ad arrivare in città; dopo circa tre ore di viaggio il caldo afoso e la foschia dello smog di città ci hanno accolti e l’impatto è stato fortissimo, tant’è che il mal di testa mi ha accompagnato per un paio di ore. Dovevo riambientarmi al nuovo clima e al contesto circostante.
L’accoglienza da parte delle sorelle di Kigobe mi ha fatto sentire di nuovo vicino Mutoyi: la loro premura nell’assicurarsi che stessimo bene e che riempissimo le nostre pance non è venuta a mancare fin da subito, e così è stato per il resto degli altri giorni!

In città avevamo bisogno di conoscere e di vedere e, subito, abbiamo iniziato a spostarci con il nostro pullmino per le strade di Buja. In particolare, abbiamo fatto tappa alla casa delle sorelline Paola e Concilia che vivono in un quartiere di periferia molto povero. La loro casa è in mezzo alla gente, per seguire il desiderio di stare a contatto con i più poveri, accoglierli e aiutarli. Una vita semplice, fatta di lavoro e di ascolto verso l’altro; anche loro in periferia hanno un terreno coltivabile, ma si sa che in città gli appezzamenti di terra sono limitati e così anche le sorelle si ritrovano con un piccolo orticello, ma ben fatto e che dà i suoi frutti. La povertà è molto forte in periferia, la gente non ha lavoro e non ha neppure un terreno dove coltivare qualche patata o dei fagioli per sopravvivere; spesso succede che le case degli emarginati vengano confiscate dal governo perché i progetti su quel terreno sono altri, e poco importa se essi rimarranno senza una casa. Le difficoltà sono tante, dagli anziani abbandonati dai propri familiari perché risultano un “peso” economico per i figli, che hanno a loro volta difficoltà a trovare un lavoro dopo anni di studio. Quest’ultimo è un problema che si riscontra al giorno d’oggi: giovani abarundi che decidono di studiare per un futuro migliore, con desideri e sogni ma che spesso vengono spezzati in mancanza di lavoro per loro; chi riesce va all’estero in Congo, Tanzania o Rwanda e chi rimane trova difficile ritornare nei campi a zappare.

Non poteva mancare la visita al panificio di Kigobe il cui laboratorio è impressionante per grandezza e per modernità dei macchinari presenti al suo interno. Oltre agli enormi forni per il pane, con mia grande sorpresa abbiamo scoperto il resto della produzione: formaggi, yogurt, succhi di frutta, marmellate, biscotti e torte di ogni tipo e forma. I prodotti finiti poi vengono venduti al negozio della cooperativa che dà lavoro a molti abarundi giovani e meno giovani che, con il loro stipendio mensile possono mantenere le proprie famiglie e coltivare i propri sogni. All’interno della cooperativa oggi lavorano solo abarundi e questa è una grande soddisfazione, soprattutto per le sorelle Giulia e Mariuccia che negli anni hanno seguito l’attività con passione e delicatezza, nonostante le molte difficoltà incontrate lungo il percorso. Dare lavoro, rendere gli abarundi autonomi e con specifiche competenze, dare loro modo di mantenere la propria famiglia e vendere prodotti a prezzi abbordabili per i molti all’interno di un contesto rurale: ecco alcuni dei desideri ad oggi realizzati.
Ma, ci tengo a sottolineare che non abbiamo solo guardato. Diversi lavori abbiamo svolto insieme agli abarundi della cooperativa: dalla bonifica e sistemazione dell’orto con alberi da frutto, al tagliare e infornare i biscotti per una comanda… erano tantissimi! Abbiamo anche verniciato diversi containers a Kigobe, utilizzati come magazzino di merci e attrezzi: i ragazzi della cooperativa ci hanno dato lezione e noi abbiamo eseguito, scambiando qualche parola in un kirundi tutto nostro e facendo andare le mani… il loro ritmo di lavoro è impressionante.

Insieme a Daniela e Arudo, che ci sopporta e ci porta ovunque, abbiamo fatto tappa anche al confine con il Congo, che ai nostri occhi rimaneva lontano con le sue colline così verdi e selvagge da scaturire in qualcuno di noi il desiderio di farci un bel trekking un giorno. Inoltre, abbiamo visitato la realtà della congregazione delle suore di Madre Teresa di Calcutta non lontana dal lago Tanganyka; qui le suore accolgono orfani di tutte le età, donne e anziani con diversi problemi fisici e mentali. Sembrava una realtà molto simile a quella di N’kuba, trasportata nella realtà cittadina e con l’aria fresca del lago da lì a pochi passi. Per questo abbiamo deciso di fare una tappa al lago, ma la parola lago non sembra descrivere bene quel che i miei occhi hanno visto; in riva al lago la sabbia era finissima, le onde dell’acqua agitata si infrangevano sulla riva mentre attendavamo il calar del sole. Mi sembrava di essere di fronte a una distesa d’acqua di mare, il cui orizzonte infinito svanisce nell’azzurro del cielo, e la pace e tranquillità del momento hanno lasciato spazio ai pensieri. Nel frattempo, le due ragazze di Verona che hanno vissuto con noi questo mese (è già passato un mese dal nostro arrivo in Burundi!) si trovavano sul volo di ritorno; le abbiamo accompagnate in aeroporto tutti insieme e, tra qualche lacrima e i molti sorrisi ci siamo salutate, con l’augurio che il nostro sia solo un arrivederci.
Là dove il cielo e l’acqua si confondono, dove le onde del lago continuavano ad infrangersi a riva, lontana dal caos di città ho pensato alle enormi contraddizioni del paese, al centro città e alle periferie dove la gente vive in strada, ai quartieri agiati affianco a quelli più poveri, alle ville enormi con giardini curati e alle case in decadenza non molto distanti da esse, senza porte o finestre, senza alcun terreno da coltivare, una fonte di sostentamento così importante per i più poveri.
Chiudendo gli occhi e viaggiando a bordo del nostro pullmino era facile accorgersi del passaggio dalla zona urbana a quella rurale, all’incontro con le prime buche che ti facevano sobbalzare a destra e sinistra.
Dalle strade della città, con il verde ben curato, le strade asfaltate e gli enormi cartelloni pubblicitari, alle sterrate della periferia, dove la gente fa la fame e dove tutta l’apparente modernità svanisce.

Durante questo breve soggiorno in capitale abbiamo avuto modo di conoscere una realtà differente da quella che si vive su per le colline, attraverso la storia delle sorelle di Buja e della loro presenza in città. Visitare e dare una piccola mano dove c’era bisogno mi ha permesso di avere uno sguardo più ampio sul Burundi, ma torno a Mutoyi anche con qualche domanda in più, in riferimento alle ingiustizie e al senso di impotenza che spesso si prova di fronte ad esse. Lungo il viaggio di ritorno da Buja a Mutoyi mi sono di nuovo soffermata sulla strada, a quello che si sviluppa intorno ad essa: gente che sale su per le colline e gente che scende in città, bambini che si aggrappano al retro di qualche camion per non faticare nella salita sulla via di casa o per andare al campo a lavorare; un papà che sorregge il corpo senza vita del proprio figlio avvolto in un telo sopra uno stuoia per portarlo alla sepoltura… chissà quale malattia avrà portato via dalle braccia di un padre e una madre quella piccola creatura.
Mutoyi e la sua gente mi mancavano, penso ai piccoli bimbi di N’kuba che ci aspettano, penso alla piccola Chantal gravemente malnutrita e al suo sorriso quando la prendo per mano, e infine penso a Gracine, una nostra vicina di casa che aspetta con gioia il nostro ritorno per imparare a giocare a pallavolo.


Kiri



Commenti

  1. Carissimi ragazzi, ogni volta che leggo i vostri racconti non posso trattenere la commozione.
    Si percepisce un tale coinvolgimento nelle vostre parole che sembra di essere trasportati nella realtà che state vivendo, attraverso le vostre parole vedo le strade, le case, i volti della gente..., le immagini di un'umanità che lotta per quello che tutti dovrebbero avere: dignità e possibilità di vita e di sogni...o almeno risposte ai bisogni fondamentali.
    Continuate a scrivere e a passarci questi messaggi che ci aprono gli occhi e il cuore e che ci pongono interrogativi importanti come quello che non posso dimenticare:
    Cosa vuol dire fare del bene?

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